Micol Fusca: concorso di scrittura creativa

Concorso di scrittura creativa: racconto di Micol Fusca

Qui di seguito potrete leggere il racconto ideato dalla scrittrice Micol Fusca, partecipante al concorso di scrittura creativa indetto da noi.

Il racconto è stato riportato così come ci è stato inviato, senza alcuna variazione.

Al termine dell’articolo, subito dopo il racconto, vi è la recensione dello staff.

Incipit fornito dallo staff:

“Tic. Tic. Tic.”

Sembravano goccioline d’acqua. Pioveva. Un’amara meraviglia lo pervase e gli accese l’animo. Si chiese come faceva a riconoscere questo rumore, persino a dargli un nome. Un momento, gli serviva un momento per pensare. Una goccia tiepida gli cadde sulla fronte; non riusciva ad aprire gli occhi, le sue palpebre sembravano incollate. Sentiva il suo corpo: c’era, ma non riusciva a muoversi. Era come paralizzato.

Non recepiva alcun dolore, non era quella la sensazione che aveva in circolo. Tentò di far spazio nella sua mente, alla ricerca di ricordi. Era tutto così buio.

Provò a muovere la bocca, con rabbia ascoltò quelli che sembrano essere solo suoni confusi e privi di significato. La sua capacità di parlare non era al passo con i suoi pensieri. Un’altra goccia gli cadde sul viso, d’istinto si sforzò di aprire gli occhi.  “Aaaaah!” Emise un rantolo di dolore, aveva commesso uno sbaglio. Aprire le palpebre in quel modo era stato come permettere a fiamme ardenti di penetrare nel suo sguardo. Il dolore sembrava aver risvegliato i suoi muscoli, così le sue mani raggiunsero il suo viso e lo stropicciano tastandone la consistenza: tentò di riportarsi alla realtà. Cercò di abituarsi pian piano al fascio di luce che entrava dalla finestra.

Si guardò intorno, non capiva dov’era.

Inspirò. Un fetido odore gli invase i polmoni. Aveva caldo. Troppo caldo, il sudore gli colava dalla fronte come una cascata. Guardò fuori, il sole sembrava sfociare in un pallido tramonto. Solo quando la parete alla sua destra cominciò a prendere fuoco, si accorse che quel posto stava bruciando.

Sentì un peso sul petto, faticò a respirare. Ma non era unicamente colpa dell’ossigeno che comincia a mancare, aveva qualcosa sul torace. Era un oggetto rettangolare, morbido, rivestito di pelle. Un libro, un diario, qualcosa del genere. Raccolse ogni briciolo di forza che sentiva di avere e provò ad alzarsi. Si trascinò verso la porta, procedendo a tentoni per trovare una via d’uscita. La sua vista era ancora annebbiata.

Sbatté contro le pareti roventi, tenne stretto quel libro per non perderlo e tentò di trovare una via d’uscita. Non riusciva più a reggersi in piedi, respirava a fatica, parte del suo corpo sembrava non rispondere ai suoi comandi. Si buttò sull’ultima porta che si apriva mostrandogli un nuovo mondo. Sentì i raggi del sole sfiorare la sua pelle. Accarezzò le cuciture di quel libro che custodiva preziosamente, tenendolo stretto.

Inspirò un’ultima boccata d’aria fresca prima di chiudere gli occhi e riposare, anche solo per un istante.

 

Racconto scritto dall’autrice Micol Fusca: Fenix

Era certo che nel sonno sarebbe giunta la consapevolezza.

Quando li riaprì la luce non era cambiata: ancora lattiginosa, grigia. Il sole di quel mondo era offuscato da una sorta di barriera che impediva ai suoi raggi di toccare il suolo per riscaldarlo.

Si obbligò a mettersi seduto, nonostante la protesta dei muscoli ancora doloranti: sapeva per esperienza di dover fare in fretta. Non sarebbe rimasto solo per molto tempo, doveva iniziare a muoversi. Le vibrazioni che avvertiva farsi largo sotto il suolo dove poggiava i piedi glielo comunicavano con veemenza: le creature che avevano captato il suo odore non erano intenzionate a dargli il benvenuto. Immerse le dita nella terra che sembrava cenere, lentamente. Sì, qualcosa si stava avvicinando.

L’urgenza lo spronò ad alzarsi sulle gambe malferme: quanto lo circondava gli rese chiaro che non avrebbe trovato l’appoggio di un bastone di fortuna.

I pochi alberi sul pendio erano scheletrici. Non dubitava si sarebbero ridotti in polvere al solo tocco della sua mano. Ingobbiti, trascinavano i rami a terra come braccia abbandonate lungo il corpo magro. Decise di ignorarli per seguire una delle pulsazioni che aveva avvertito farsi strada fra le altre con debolezza.

Il suo sguardo vagò fino all’orizzonte, dove si stagliava il profilo di un albero imponente. Anch’esso grigio, apparentemente morto. Sapeva che non era così. Era la sua meta.

Dedicò un’occhiata veloce al fantasma della capanna dove si era destato: bruciata, oramai polvere. Indistinguibile.

S’incamminò incerto, sapendo che passo dopo passo il suo corpo avrebbe riacquistato forza. Era abituato al rigenerarsi della carne e quella forma gli consentiva una rapida guarigione. Considerò con ironia che non avrebbe sentito la mancanza di abiti al tramontare del pallido sole.

Aveva “vestito” una forma simile in altri tempi e in altri luoghi. Umanoide, alta un paio di metri. La parte inferiore del corpo era coperta da pelo folto e terminava in piedi grandi e robusti che non risentivano dell’asperità del terreno. Busto, viso e braccia somigliavano a quelli che aveva indossato molte volte. La muscolatura era adatta alla lotta, l’olfatto fino. I suoi timpani iniziarono a inviargli suoni impercettibili.

Nel riprendere consistenza il suo camminare si fece più spedito. Il cranio fece spazio a corna d’ariete, i suoi occhi divennero grandi e profondi. Ora, vedeva con chiarezza le dimensioni maestose dell’albero pietra. Il più grande avesse mai visto.

Strinse il libro al petto, proteggendolo con le braccia incrociate: il suo tesoro più prezioso.

Cercò di immaginare l’identità di chi lo aveva evocato: sembrava impossibile che qualcuno fosse sopravvissuto a quella desolazione. Eppure, aveva intessuto uno degli incantesimi proibiti cui avevano accesso solo gli Immortali. Non conosceva il motivo per cui aveva abbandonato il Codice, ma sapeva di dover proteggere il libro da occhi indiscreti. Avrebbe chiesto spiegazioni giunto all’albero.

Si stagliava enorme anche da quella distanza. Calcolò fosse alto un centinaio di metri, una sentinella indefessa che attirava lo sguardo con la sua maestosità. Una meta per chiunque traversasse quelle lande senza colore.

Con l’avvicinarsi, riuscì ad ammirare l’intreccio dei tronchi che formavano il suo corpo: si abbracciavano in più colonne per riunirsi alla sommità in un monolite rugoso dove forme si alternavano in un altorilievo. Una volta giunto in prossimità delle radici comprese che non avrebbe trovato nemici. Le forme pallide che si alternavano intrecciandosi erano antropomorfe, mutate in pietra nell’atto di riunirsi in una sola.

Non aveva sbagliato nel pensare che l’albero fosse sacro: era nato dalle anime di molti che avevano voluto celare allo sguardo di un Dio maligno un tesoro molto importante. Più importante del libro che reggeva fra le mani.

In egual modo, avrebbe celato lui offrendogli un rifugio.

Individuò alcune colonne ad arco che lasciavano spazio a un pertugio, una feritoia invisibile a occhi meno attenti. Vi si introdusse senza un lamento, lasciando che i trochi gli graffiassero la pelle strappando lembi di carne. Una volta dentro il tronco sollevò lo sguardo con meraviglia. Aveva pensato di trovare una grotta, chiusa, mentre in realtà l’interno era completamente cavo. Sollevando il volto poteva incontrare il cielo senza una nuvola, immoto.

Un fruscio catturò la sua attenzione. Tornò a concentrarsi su quanto gli stava attorno, sulle ombre che velavano le colonne che racchiudevano quel piccolo spazio concesso all’aria.

– Sono qui, come hai chiesto. –

Nessuna risposta. Non dubitava del suo udito né delle vibrazioni che aveva avvertito provenire nell’oscurità cui stava di fronte. Gli venne da pensare che la creatura che si nascondeva avesse paura. Assurdo. Era giunto lì per suo volere.

– Ho il Codice. – tese le braccia, mostrando il libro.

Gli rispose un sussurro: un suono basso, spaventato. Lo squittio di un topolino si sarebbe fatto strada verso di lui con più forza.

– Vieni fuori. – decise di modulare la voce in un comando secco, intuendo che non avrebbe potuto convincere l’altro diversamente.

Attese paziente.

La forma che si fece largo nelle ombre lo colse del tutto impreparato. Una fauna bambina. Il corpo esile tremava come una fiamma, facendola sembrare ancora più piccola. Cercò i suoi occhi fra i capelli bianchi che le oscuravano il viso, trovandosi a fissare laghi azzurri. Non erano i colori tipici della sua razza.

– Sei sola? – domanda oziosa, che aveva posto solo nel tentativo di tranquillizzarla.

Vide nel suo sguardo il desiderio di mentirgli, di dirgli che entro breve tempo sarebbero giunti i suoi di ritorno dalla caccia. Non lo fece.

– Sì. –

Colse gli occhi chiari posarsi sul Codice.

– Conosci questo libro? –

Lei scrollò il capo, prossima alle lacrime. – No…io, l’ho sognato. –

La coscienza lo raggiunse con forza: era lei, il tesoro. Lo aveva evocato in sogno presa da un’urgenza cui non aveva saputo dare nome, un potere che non sapeva di possedere.

– Sai, chi sono? –

La piccola scosse la testa. Seppe che non mentiva.

– Sono un Assassino: il mio compito è uccidere qualcuno. Quanto hai chiesto alla Luce. –

La bambina smise di tremare, alzando su di lui uno sguardo timoroso. – Anche un Dio? –

Lui sorrise. – Anche un Dio. –

 

La bambina era uscita dal suo rifugio, rannicchiandosi in un angolo: lesse dalla postura del corpo che era pronta a scappare al minimo cenno di pericolo. Giudicò avesse una decina d’anni: pur piccina, i suoi occhi la rendevano vecchia. Il pareo che indossava allacciato alla vita aveva visto giorni migliori: la stoffa impolverata era strappata in più punti. Una stoffa sottile, ricca, intessuta da una Maestra del telaio.

L’Assassino le sedette di fronte, attendendo fosse lei a parlare.

Dopo un silenzio carico di sensazioni contrastanti ottenne un briciolo della sua fiducia: la fauna aveva posato lo sguardo sul Codice che lui aveva lasciato al suolo. Una tenue barriera fra i due.

– E’ possibile, uccidere un Dio? –

Il tremore della sua voce gli fece intuire che non credeva a quanto le aveva detto.

– E’ possibile uccidere la sua manifestazione. – era una domanda che nessuno gli aveva mai rivolto. Chi lo evocava era solito conoscere il potere dell’incantesimo. – Un Dio può intervenire nella dimensione terrena servendosi di un’entità fisica modellata dalla sua volontà. Un’interferenza che porta squilibrio nel flusso dell’Universo. La sua “morte” materiale lo esilia nel Profondo per secoli. –

Lo fissò pensierosa. – Questo…significa che si può uccidere un Dio buono? –

Annuì. – Sì. L’equilibrio vale per entrambe le forze. Un Dio “buono”, come lo chiami, può provocare altrettanto danno. Pensa a un mondo senza morte, né fatalità. Nulla per cui combatterebbe. L’amore perderebbe di significato perché concesso senza sentimento. Le anime congelate in un solo istante impedendo loro di progredire. –

– Tu, uccidi anche gli Dei Buoni? –

Molte domande: non ne era abituato. Anziché stizzirlo, trovò la situazione piacevole. Era abituato a essere un semplice mezzo: la piccola aveva bisogno di lui per comprendere il destino cui era chiamata.

– Qual è, il tuo nome? – nel ricevere un nome, gli esseri materiali acquistavano identità e sicurezza: era certo che quel nuovo passo l’avrebbe rassicurata.

– Réina. – il suo sguardo lo invitò chiaramente a contraccambiare la fiducia ottenuta.

– Puoi chiamarmi Fenix. – non era il suo nome, ma poteva andare bene. – E’ un bel nome, il tuo. – le labbra di Réina si piegarono in un sorriso timido, subito cancellato dal timore. – No, non è mio compito. E’ l’Armageddon a occuparsene: le piace pensare a sé come una “lei”. Potresti incontrarla un giorno. –

Le sopracciglia della bambina si sollevarono in un’espressione perplessa. – Un altro Dio da combattere? Non credo di poter sopravvivere tanto. –

– Forse, sì. – l’Assassino non voleva spaventarla: doveva a Réina la verità. – Hai evocato il Codice Aureo. – abbassò gli occhi per qualche istante sul libro, tornando a catturare quelli di lei. – Imparerai a servirti di quello d’Ombra. L’Equilibrium ha deciso di affidarti questo mondo. –

La bambina si strinse con forza le gambe piegate che aveva avvicinato al petto scarno e rabbrividì. Non comprendeva le parole dello strano fauno che era giunto fino a lei, ma intuiva la loro importanza.

Scosse il capo energicamente. – Non posso aiutarti. Non so nulla del Dio che è sceso da noi: ha oscurato il cielo portando morte e distruzione ovunque. –

L’Assassino prese il Codice fra le mani. – Ho tutto quanto mi serve. Le mie istruzioni sono scritte nel Libro: posso ricavare ogni informazione necessaria a svolgere il mio compito. Te lo consegnerò non appena terminata la mia missione. –

– Te ne vai? – le uscì dalle labbra un urlo spezzato, capace di rompere le barriere che aveva creato per mantenersi distaccata. Era il primo a essere giunto lì dopo che i suoi l’avevano costretta a entrare nell’albero facendole promettere che non sarebbe uscita per nessun motivo al mondo. Il pensiero di essere sola, nuovamente, le fece perdere il respiro.

Fenix osservò le colonne di legno miste a pietra con attenzione. Aveva intuito la sua paura e desiderava darle altro cui pensare. – Farò in fretta. Hai di che cibarti? –

Réina si asciugò le lacrime che nonostante la sua volontà le avevano inumidito gli occhi, passando un braccio sul volto con un gesto secco. – Sì. – gli indicò una sezione di tronco ancora verde, dove grondavano gocce scure. – Linfa. –

Lui annuì, facendo cenno di alzarsi in piedi. Si ritrovò le braccia della bambina strette alle gambe, quasi a impedirgli il passo: alla fine, aveva ceduto alla disperazione.

– Come… potrò sapere che sei riuscito a sconfiggere il Dio? Che non sono sola? –

L’Assassino le posò una mano sulla testa, cercando di mettere in quel gesto tutto il calore di cui era capace. L’umanità era molto lontana dalla sua natura. – Guarda il cielo. Le stelle torneranno a brillare. I sopravvissuti comprenderanno e volgeranno il cammino verso l’albero: è un faro capace di attrarre la tua gente da ogni dove. –

– Tornerai? – oramai era rassegnata: la sua voce era tornata flebile.

Le sorrise. – Devo restituirti il Codice, ricordi? Tornerò. –

 

Uscito dal rifugio, mosse i suoi passi in direzione del sole morente. Le vibrazioni inviate dal suolo gli indicavano chiaramente il cammino.

Strinse il Codice al petto con forza, incorporandolo nel suo corpo. Nessun dolore. Il Libro si fece materia unendosi alla sua.

Non tardò a comprendere la natura degli esseri di cui aveva avvertito la presenza appena giunto in quel mondo. Deformi quanto gli alberi, pallidi, privati della loro linfa. Un tempo fauni, svuotati della loro anima. Semplici involucri dal ventre gonfio, esseri senza occhi che volgevano su di lui orbite vuote. Percepivano il suo calore.

Si avvicinarono senza vera percezione, attratti dalla carne viva che lo ricopriva. Intuì che a spingere le creature non era fame, bensì un bisogno loro sconosciuto. Un’inconscia nostalgia impressa nelle viscere.

L’Assassino li lasciò fare. Ora che aveva trovato l’Immortale non gli importava essere visibile agli occhi del Dio.

Procedette affiancato dal grigio corteo fino a quando uno dei vaganti si accasciò a terra. Si fermò, osservandolo con attenzione: del suo corpo immoto era solo il ventre a vibrare. Lo vide tendersi, piegarsi, fare spazio a un essere che si faceva largo verso la luce lacerando la pelle sottile come un velo. Era curioso di conoscere l’aspetto delle creature che il Dio aveva modellato per popolare la landa senza vita.

Nacque già adulto, in grado di recare danno. Nemmeno un respiro e gli artigli cercarono il suo volto. Le fattezze del parassita ricordavano vagamente il fauno che lo aveva ospitato: la pelle glabra era chiara, traslucida, gli occhi rossi enormi e ravvicinati sembravano fondersi in uno.

L’Assassino gli sfiorò la fronte compassionevole, imprimendo un sigillo. La creatura tornò a divincolarsi a terra avvolta dalle fiamme: pochi attimi e la sua cenere si unì a quella del suolo.

I vaganti attorno a lui sembravano moltiplicarsi con il procedere del cammino. Gli lasciavano spazio dividendosi come le acque di un antico mare attraversato da un profeta lontano. Percepivano la sua natura.

I parassiti erano più fastidiosi, doveva fermarsi ed eliminarli. Non desiderava che raggiungessero all’albero che proteggeva Réina prima di aver incontrato il Dio. Sapeva di non poterli eliminare tutti, era un compito che poteva essere portato a termine solo dopo anni di lotta: quel mondo era colmo di ventri malati pronti a schiudersi per fare spazio agli abomini.

Era certo che una volta rischiarato il cielo, i fauni sopravvissuti sarebbero giunti al Santuario a frotte. L’istinto e la forza dell’Immortale li avrebbero spinti a volgere lo sguardo in quella direzione.

La polvere su cui posava i piedi si era fatta fredda: percepì le montagne ancora prima di vederle. Camminare non gli dispiaceva, gli permetteva di riflettere. Non temeva la battaglia con il nemico: sapeva che ne sarebbe uscito vincitore. Tanto quanto, lo sapeva il Dio.

Ad annoiarlo era la consapevolezza che il suo antagonista avrebbe tentato di portarlo dalla sua parte. Gli Dei ribelli difendevano strenuamente le loro spoglie mortali: piagnucolosi o arditi muovevano le stesse ragioni.

Il piacere di vestire una forma, possedere dei sensi che permettevano loro di assaporare ogni sensazione.  Olfatto, vista, gusto, tatto, udito. Non più vuoto, ma materia. Vita.

Non era in totale disaccordo, ma il destino cui erano chiamati era un altro. A un Dio non era concesso essere egoista: doveva uniformarsi al ciclo di forze che mantenevano l’equilibrio. Un Mare all’apparenza placido dove onde di forza contraria si intrecciavano in una danza senza fine.

Lui era stato creato della stessa essenza. L’Universo gli aveva affidato il compito di intervenire qualora un’onda del Mare avesse preso sopravvento sull’altra. Assieme all’Armageddon tesseva una sola sostanza: dividersi provocava loro una sorta di dolore, ma si assoggettavano per mantenere l’equità. Erano il contrappeso destinato a ricompattare l’Equilibrium.

I suoi piedi gli comunicarono che il terreno si era fatto più solido: la roccia aveva sostituito la cenere. Non era lontano dalla meta.

 

Riconobbe Haine al primo sguardo: la forma che aveva scelto di vestire aveva poca importanza. Si erano incontrati molte volte. L’Assassino conosceva i suoi piani, la pulsione che lo spingeva a disobbedire all’Equilibrium non appena terminato l’isolamento nel Profondo. Comprendere le sue ragioni non era parte del suo compito.

Si disse che con Lui avrebbe evitato l’odiosa farsa che lo costringeva a ballare l’eterna danza fra torto e ragione. Haine aveva esaurito da tempo gli argomenti di discussione.

I parassiti che avevano modellato ricordavano il suo aspetto solo per la pelle traslucida, opalescente. Aveva costruito il suo corpo dandogli forma compatta, alta e solida quanto un piccolo albero. Al centro della fronte gli occhi rossi si fondevano in uno, capace di spaziare con lo sguardo in ogni direzione.

Sebbene non avesse labbra, la sua voce lo raggiunse possente.

– Ebbene, sei qui? Pensavo di avere più tempo, non avevo avvertito la presenza di un Immortale. – la sua sorpresa era genuina.  

– Un Immortale bambino. Non è consapevole della sua natura. –

Haine inclinò leggermente il capo. – Così, dunque. – mosse le spalle imitando il gesto di stendere i muscoli. – Non ti tedierò inutilmente, conosci il mio pensiero. Se l’Equilibrium ci avesse voluto docili, non ci avrebbe fatto dono dei sentimenti. Conosci questa condanna benché tu non ne soffra. –

– Ti arrendi? – l’Assassino corrugò le sopracciglia, stupito.

La risata del Dio lo raggiunse carica, forte come il boato di un tuono. – Vuoi privarmi dell’ultimo piacere? Amo prenderti a calci, sebbene conosca l’esito del nostro scontro.

Fatti sotto, uccellaccio. –

 

Finalmente notte. Una notte coronata da una cascata di stelle.

L’Assassino si apprestò a fare ritorno. Volte le spalle alle montagne rocciose, l’albero iniziò a prendere consistenza. Qualcosa, era cambiato.

Il suo tronco si levava ancora verso il cielo, ma risplendeva di nuovo orgoglio. La linfa iniziava a guarire quanto era stato lacerato: alcuni dei rami erano coperti di gemme color smeraldo. Il terreno sotto i suoi piedi vibrava all’unisono con il Santuario. La vita stava prendendo nuovamente possesso di quel mondo.

Una volta vicino si accorse che le anime imprigionate nella pietra si erano sciolte per proseguire il cammino: il loro compito, era cessato.

Réina lo attendeva accanto alle radici. Lo sguardo di lei gli trasmise sentimenti contrastanti: era felice del suo ritorno, ma sapeva che non sarebbe rimasto a proteggere i suoi passi.

Alle sue spalle sostava una donna fauna. Le aveva posato le mani sulle spalle in un istintivo gesto di protezione. Altri, guerrieri sopravvissuti all’annichilimento, si tenevano distanti. Erano giunti lì attratti dall’aurea della piccola: l’avrebbero difesa a costo della vita. L’Ordine era stato ristabilito.

Giunto di fronte a lei si chinò sulle ginocchia, portandosi alla stessa altezza degli occhi chiari. – Sei stata coraggiosa, piccola Réina. E’ stato un piacere servirti, so che questo non è un addio. –

Lungi dall’esserle di consolazione, la piccola iniziò a piangere.

L’Assassino accettò il suo slancio, l’abbraccio con cui si strinse a lui. Lo ricambiò con dolcezza.

– Vai…da “lei”? –

Lui si sciolse, cercando nuovamente i suoi occhi: vecchi, saggi. – Sì. Vado da “lei”. –

La fauna prese un respiro profondo. – E’…gentile? –

L’Assassino scoppiò a ridere. Fra tutte quella dote le mancava. – No. –

– Oh. – dal suo sguardo era chiaro che Réina sperava di non avere motivo per evocarla.

– Sono qui per restituirti il Codice, è tuo. – la scostò gentilmente, facendole intendere che doveva arretrare di alcuni passi. La donna fauna comprese la sua muta richiesta: le strinse una mano, allontanandola.

– In uno dei mondi che ho avuto modo di visitare, molte volte, usano dire di me “Post fata resurgo” – Le sorrise ancora. – Dopo la morte, risorgo dalla cenere. –

Il calore che aveva avvertito quando era “nato” tornò a farsi strada sulla sua carne. Ora sapeva che non era stata pioggia quella che aveva avvertito al risveglio, ma gocce del suo stesso sudore che gli bagnavano il viso. Non provava dolore. L’Olocausto era necessario per ricongiungersi all’Equilibrium. All’Armageddon.

Haine aveva lanciato l’unico strale in grado di far vacillare la sua intenzione. Al contrario del Dio, aveva motivo per fare ritorno.

Continuò a bruciare come una torcia, consumando la materia di cui si era circondato per risorgere. Le ceneri caddero a terra, ricompattandosi.

Quando anche l’ultima fiammella si spense nella notte, Réina avanzò. Piegò le ginocchia per immergere le dita in quanto rimaneva dell’Assassino, afferrando con forza  il tomo sepolto. Sollevò il Codice verso le stelle. L’Albero le rispose, schiudendo le gemme appena nate.

Recensione: 

L’autrice ha uno stile decisamente ricco, il lessico è forbito e il modo in cui si esprime non è affatto elementare. Il tutto, impreziosito da una narrazione comprensiva di diversi dettagli e particolarità, rende il racconto decisamente interessante da leggere. Sicuramente è una stesura da seguire e non è affatto una lettura da fare con superficialità; questo, secondo il nostro personale parere, è un aspetto molto apprezzabile che, tra l’altro, le conferisce una personalità riconoscibile (per una scrittrice è di certo un pregio).

I personaggi e le vicende che li intrecciano sono misteriose e accattivanti. I dialoghi tra Réina e l’Assassino ci sono piaciuti molto, soprattutto perché non sono stati per nulla scontati: senza ombra di dubbio il racconto è stato ben strutturato e, in qualche modo, studiato, tanto da risultare immediatamente credibile. 

L’intera trama e la narrazione si costituiscono di particolarità e di alcuni elementi che abbiamo apprezzato (per fare qualche esempio: il fatto che il libro/codice si incorporasse nell’Assassino, la sua “nascita/morte”, il finale che potrebbe lasciar presagire un suo ritorno, una rinascita dalle ceneri ecc…) e altresì i discorsi indiretti sono assolutamente ben esposti.

Il mondo trattato dall’autrice è di sicuro coinvolgente e le descrizioni sono sufficientemente complete ed esaurienti; inoltre, le idee esposte dimostrano una grande fantasia e creatività. Crediamo che, nonostante vi fosse il limite di parole imposto, il lavoro svolto sia degno di nota.

Non abbiamo molto da dire sulla grammatica e sulla sintassi perché sono ottime. 

Complimenti e grazie per la partecipazione! Per qualsiasi dubbio/necessità siamo ovviamente a disposizione.

Lo staff